Una dose non vale una vita: la “Comunità Figlia di Sion”
“La vita non è un gioco.
La vita non può andare in fumo.
La vita non è in uno schermo.
La vita è tua e solo tua, non appartiene ad un altro”.
Oggi vi racconto una storia, una storia a lieto fine.
Vi racconto la storia di Simone, Antonio, Domenico, Gianpiero, Riccardo, Luigi…. e tanti altri ragazzi che per un motivo o per un altro: per la droga, per l’alcool, per l’azzardo, per l’abuso di internet, per un amore malato, per solitudine, paura, senso di inferiorità, disperazione, sono inciampati percorrendo il cammino della vita.
Vi racconto la storia di questi ragazzi che toccando il fondo, hanno pensato che tutto era finito, che non c’era più speranza per loro e che, con quel briciolo di forza che gli restava, hanno chiesto aiuto tendendo la mano e ne hanno trovate altre due pronte a tirarli su di nuovo.
Vi racconto la storia della Comunità Figlia di Sion Onlus.
Quando un ragazzo arriva in comunità e riconosce l’inferno che vive non solo fuori ma soprattutto dentro di sé noi gli diciamo che nulla è perduto e che se vuole può riprendere il suo viaggio, non certo da dove lo ha lasciato prima di incontrarci ma proprio da capo.
Gli diciamo che se vuole ha la possibilità di rinascere, di avere una seconda opportunità e vivere davvero.
La Comunità per noi è una famiglia. Una famiglia grande in cui a volte si sta un pò stretti ma in cui il posto è difficile che manchi.
Nasce tredici anni fa da un sogno un pò folle di un paio di ragazzi che decidono di mettersi in gioco, qualcuno lascia tutto per seguire questo sogno, qualcun altro, per realizzare questo sogno, decide di mettersi a studiare, qualcun altro si rimbocca le maniche e pietra su pietra lo costruisce rendendolo reale.
A distanza di circa tredici anni la Comunità che per scelta vive di Provvidenza, senza sovvenzioni pubbliche, conta tre case e due sportelli di ascolto.
E’ presente nel territorio molisano, in Abruzzo, in Lazio ed in Campania ed ogni giorno lascia le porte aperte per accogliere chi vuole entrare in cerca di aiuto, in cerca di speranza.
In cerca di vita.
La Comunità è una scuola di vita.
Un detto dice che nella vita gli esami non finiscono mai ed è proprio vero, la vita ci sottopone di frequente a prove più o meno difficili che purtroppo non sempre superiamo.
Quando accade che ne usciamo sconfitti possiamo però ancora avere una possibilità.
Possiamo scegliere tra due strade o ci abbattiamo e ci lasciamo andare o cerchiamo un modo per ricominciare.
La comunità, in alcuni casi, è quel modo per riprovarci.
E’ quello strumento che ti dà la possibilità di mollare gli ormeggi e riprendere il largo, navigando nel tuo mare certo però di avere un porto in cui tornare.
La comunità è quel porto che è lì, che ti prepara alla partenza, che ti aspetta e ti accoglie ogni volta che hai bisogno di ritrovarti e ritrovare senso, di ricaricarti e magari partire di nuovo.
Quando il lunedì, il giorno dei colloqui, arriva un giovane (o un meno giovane) per conoscerci e farsi conoscere porta con sé, oltre alla sua famiglia se ancora ne ha una: la sua storia, il tormento del fallimento, il dolore, la paura, mostri inguardabili di cui, se ne ha preso profondamente coscienza si vergogna non poco.
Il più delle volte però li manifesta con un meccanismo di difesa che sembra voglia dire tutto tranne che “aiutatemi”, tuttavia gli anni e l’esperienza maturata ci hanno reso capace di guardare oltre e leggere tra le pieghe di un viso, seppure giovane, segnato dalla sofferenza e dalla disperazione.
E’ vero quello che dice la psicologia, la comunicazione non verbale ha il primato sulle parole, tutto sta a saperlo cogliere ed è lo sguardo attento che permette di non fermarsi alle apparenze, anche se non sempre è facile e qualche volta di può anche sbagliare nella valutazione, come è accaduto proprio in una vicenda che vi racconterò più aventi… meno male che la comunità mi ha insegnato però che dagli errori si può sempre imparare se si accettano e si può persino migliorare.
Torniamo ai ragazzi ed ai colloqui di ingresso.
Dunque, dopo una serie di incontri con il ragazzo e la sua famiglia, se lui decide di mettersi in cammino, gli chiediamo di lasciare tutto quello che ha portato con sé, gli abiti, gli oggetti personali e soprattutto quel bagaglio emotivo troppo pesante da portare.
Gli diamo abiti nuovi, segno di un passaggio, della promessa di un rinnovamento ed una bisaccia vuota da riempire con tutto quello che sarà l’uomo nuovo che si appresta a nascere.
Con l’ingresso in comunità si abbraccia il suo stile di vita e si accettano le regole.
Ci sentiamo dire spesso, durante i colloqui, arrivati a questo punto della reciproca conoscenza, un punto che rappresenta per molti il giro di boa e che segna la marcia in dietro: “Le regole? Quali regole? A che servono le regole? Io ce la faccio da solo, senza imposizioni”.
Seppure nel bisogno più estremo, non sempre si è pronti a virare, a cambiare direzione, a gettare le reti dal lato opposto a quello che pensiamo essere il migliore, per dirla con le parole di Gesù, il Maestro che cerchiamo di seguire (e che seguiamo seriamente, sempre ci indica la direzione giusta).
Quando accade che il ragazzo, intrappolato nelle convinzioni che la “mentalità tossica” gli fa credere corrette, non accetta le regole, molla la presa, rinuncia prima di provare alla possibilità di darsi una seconda opportunità.
A noi dispiace ma lo lasciamo andare.
E’ la sua scelta.
All’inizio ho citato un’immagine a noi molto cara, quella delle mani che si incontrano e che rialzano.
Perché possa succedere questo è necessario che ci sia una mano che cerca ed altre due pronte a dare.
Non si può tralasciare questo aspetto che, seppure fonte di sofferenza, resta fondamentale.
Chi chiede deve riconoscere il suo bisogno per poterlo fronteggiare.
Voi mettereste ordine in un posto già ordinato? No vero, non sarebbe necessario. E così non si può mettere ordine se non si riconosce il disordine o non si ha voglia di farlo.
Quando però, in altri casi, come quello di Simone, un ragazzo che avevo dato per spacciato, che non credevo assolutamente potesse farcela (la storia di cui accennavo qualche rigo sopra), si accetta la sfida, con essa la vita comunitaria e le sue regole, ci si mette in discussione, fidandosi di un altro (che non è detto ci fregherà come sempre abbiamo sperimentato nel passato con i falsi amici mossi dall’egoismo e dall’opportunismo), si scopre nel tempo che quello in cui ci ostinavamo a credere era una bugia e che le regole non rappresentano limitazioni ma il viatico per la libertà.
Soprattutto si scopre di valere, di essere capace di tanto, si ritorna a guardarsi allo specchio (o a farlo per la prima volta senza paura) felici di sé e grati per il prezioso dono della vita e per la meravigliosa bellezza della condivisione che demolisce i muri dell’isolamento.
Amo tanto la comunità che quando ne parlo o scrivo di lei rischio sempre di perdermi, temo sempre di non dire abbastanza o, al contrario di dire troppo, di dimenticare qualcosa o di perdere il filo. Poi però penso che talvolta, è meglio seguire il cuore che, quando è innamorato, è del tutto sincero e senza difese e fare, come insegna San Francesco, quello che riusciamo, ritrovandoci poi (sicuramente non solo per merito nostro) a fare qualcosa di inaspettato e più bello proprio come ci è capitato con la Comunità… ma torniamo alle regole.
In genere si pensa che le regole rappresentino divieti, questo è causato il più delle volte dalla modalità in cui le diamo: “Non si può..”, “Non è permesso…”, “Non devi…”.
La psicologia ci insegna che se trasformiamo il negativo in positivo le cose cambiamo, e cambiamo di molto.
Volete una prova?
Se: “In comunità non si deve stare mai da soli” diventa: “ In comunità si è sempre in compagnia”,
cosa succede?
Probabilmente non mi sento limitato in una mia libertà ma accolto e sicuramente meno solo, questa regola mi aiuta ad uscire da quell’isolamento, diventato la prigione che per troppo tempo mi ha impedito di vivere veramente.
Nel cammino comunitario, attraverso una proposta di vita semplice ed ordinata non solo ci scopriamo bisognosi e impariamo a dare un nome a quelli che sono i problemi che ci affliggono e non di rado ci portano più o meno velocemente ad una morte sia emotiva che fisica ma, si affrontano e si impara che anche dalla cosa più vile e disprezzata può nascere qualcosa di buono.
Pensate al letame, uno scarto che con il tempo ed i giusti accorgimenti, può diventare concime e contribuire al meraviglioso processo della vita che nasce.
Buon cammino a chi ha avuto il coraggio di intraprenderlo e a chi deciderà di incamminarsi.
Dott.ssa Antonella Petrella