Il suicidio nelle Forze Armate e nelle Forze dell’Ordine: una fotografia d’ insieme
Ormai sta diventando particolarmente difficile tenere il conto, il conto tragico, degli uomini in divisa morti a causa del suicidio.
Il suicidio è un atto complesso, non ascrivibile a una sola causa: gli studi più recenti sono infatti concordi nell’affermare che le motivazioni alla base di quest’atto estremo possono derivare da una complessa interazione di fattori biologici, genetici, psicologici, sociali, culturali e ambientali.[1]
Le statistiche ISTAT presentate nel settembre 2017 in occasione della giornata mondiale dedicata alla prevenzione dei suicidi mostrano una chiara fotografia del fenomeno nella popolazione civile Italiana.
Esiste un’ evidente prevalenza di frequenza nella popolazione maschile, in una fascia di età che va, per lo più, dai 45 ai 64 anni con il dato del 37%.
Tuttavia, sono degne di nota, anche la fascia sopra i 64 anni coi il 35% dei casi e quella sotto i 45 con il 23%[2].
Sempre dagli stessi dati, sembrerebbe che un elemento discriminante sia il livello di istruzione: ad un basso livello di istruzione corrisponderebbe un tasso più elevato di morte a causa del suicidio.
Infine, risulta interessante sottolineare, sempre dalla stessa statistica ISTAT, che i mesi considerati più a rischio siano quelli a cavallo tra la primavera e l’estate.
Questa statistica non include in modo particolare gli appartenenti alle FF.OO ed alle FF.AA ma è in linea con le attuali tendenze.
Nello specifico, il suicidio è la terza causa di morte nelle Forze Armate e nelle Forze dell’Ordine, preceduta dagli incidenti automobilistici e dalle malattie[3].
I primi dati ufficiali, che furono resi pubblici dal Ministero dell’Interno, interessarono il quinquennio 2009-2014: 62 sono stati quelli tra gli agenti di polizia, 92 tra i carabinieri, 45 nella guardia di finanza, 47 tra i poliziotti penitenziari, otto tra i militari dell’ormai sciolto corpo forestale[4].
Per i successivi cinque anni si può far riferimento ai dati raccolti dall’associazione Cerchio Blu[5], arrivando a contare nel biennio 2015-16, la morte per suicidio di 66 persone tra uomini e donne appartenenti alle Forze dell’Ordine e le Forze Armate, suddivisi in 34 nel 2015 e 32 nel 2016[6].
Complessivamente, sempre dalla fonte dell’ Osservatorio dell’associazione Cerchio Blu, si registrano tra il 2010 e il 2016 circa 255 morti a causa della scelta di togliersi la vita.
Il numero evidentemente elevato, sebbene spalmato in più anni, è decisamente allarmante poiché corrisponde a circa il doppio rispetto alla media di suicidi nella popolazione civile italiana[7].
L’associazione Cerchio Blu effettua una precisa fotografia dei casi che vanno dal 2014 al 2019 (ovviamente i dati dell’ultimo anno sono ancora, dolorosamente, provvisori).
Di seguito si riportano dei grafici da cui di nota chiaramente quanto esposto in precedenza e la situazione attuale, suddividendo le morti per anno e corpo di appartenenza.
Nel grafico 1[8], si mostra il report sui suicidi delle Forze dell’Ordine 2014 – 2019 per corpo d’appartenenza (al 06/09/19).
Grafico 1.
Dalla statistica di riferimento, risulta che la modalità più comune per togliersi la vita è utilizzare l’arma di ordinanza in un luogo privato o sul posto di lavoro; maggiormente nel nord Italia ed in una fascia di età che risulta essere in linea con la statistica ISTAT della popolazione civile, cioè con una maggiore prevalenza tra i 24 ed i 64 anni, come mostrano i grafici 2, 3 e 4[9] che seguono.
Grafico 2.
Grafico 3.
Grafico 4.
Nell’anno corrente, osservando i decessi per causa del suicidio nel personale militare e di polizia, salta subito all’occhio il numero elevato dei casi, ad oggi 42 che si susseguono con una notevole e paurosa frequenza che non lascia indifferenti.
Come mai questa escalation di morte?
Il motivo reale, per cui una persona arriva a fare un gesto così estremo, non si potrà mai sapere con certezza. Quel motivo, il più delle volte, va via con chi decide di non restare più: forse stanco, forse solo, forse spaventato, forse deluso, forse con un pesante senso di colpa, forse troppo imbarazzato, forse senza più speranza a cui attingere per andare avanti.
A chi resta, rimane un vuoto enorme impossibile da colmare e tante domande a cui è difficile rispondere.
Tra i tecnici del settore è diffusa l’opinione che la possibilità di fruire di un’arma sia tra i fattori più incidenti, oltre all’esposizione a livelli elevati di stress e situazioni lavorative pesanti.
Gli appartenenti alle Forze Armate ed alle Forze dell’Ordine risultano essere più a rischio dei civili, per la maggiore esposizione a eventi stressanti ed alle conseguenze post-traumatiche che da essi derivano, nonché al burn-out da lavoro, legato alle caratteristiche organizzative ed etiche proprie dell’attività di competenza[10].
Nel testo “Il Suicidio oggi”, gli autori, Giampieri e Clerici, così si esprimono in merito ai fattori incidenti nell’aumento del rischio suicidario: “la natura particolare del servizio, lo stress legato al rischio intrinseco della professione, oltre alla portata civile e morale del lavoro svolto, nonchè le responsabilità relative e la delicatezza delle mansioni, sottopongono l’individuo a una condizione di stress cronico in grado di minare la salute psicofisica e di predisporre, di conseguenza, anche al suicidio. Dato il ruolo sociale, inoltre, potrebbe essere molto difficile per queste categorie ammettere uno stato di malessere o di fragilità e, conseguentemente, chiedere aiuto”.
Esiste una teoria psicologica ideata da Joiner nel 2005 e definita “teoria interpersonale-psicologica del suicidio” (IPTS; Joiner, 2005), essa delinea un modello del comportamento suicidario che si concentra su tre variabili necessarie e congiuntamente sufficienti che devono essere presenti in un individuo perché metta in atto un comportamento letale: appartenenza contrastata, onerosità percepita e capacità acquisita di effettuare un atto di letale autolesionismo.
La percezione di onerosità e di appartenenza contrastata costituiscono quello che l’IPTS definisce “desiderio di morte”. Quanto più intensa è la combinazione di questi fattori, tanto più forte è probabile che sia l’ideazione suicidaria[11].
Per appartenenza contrastata, secondo questa teoria, si intende la mancanza di interazioni sociali positive e la sensazione di non ricevere accudimento.
Per onerosità percepita si intende invece la sensazione di essere un peso per gli altri che fanno parte del suo ambiente.
La terza variabile in gioco, nella teoria interpersonale psicologica del suicidio, è la capacità acquisita, cioè quella capacità che aumenta con il servizio ed è data dall’esposizione frequente ad eventi pericolosi e violenti. Le ripetute occasioni di interventi su scenari drammatici, dovute alla natura del proprio servizio, potenzialmente assuefanno l’individuo alla possibilità di relazionarsi con la morte (anche con la propria) e di fronteggiarla, in maniera tale da eliminarne la paura ed il dolore da essa causati.
Tale assuefazione è ritenuta tra le concause per cui si arriva ad agire atti estremi, considerati erroneamente ed in ultima analisi, l’unica soluzione possibile a diversi e svariati ordini di problemi, sia di natura privata che professionale.
Infine, un ruolo primario e fondamentale che in sé racchiude molteplici spinte motivazionali al gesto suicidario, è da attribuire alla bassa tolleranza alla frustrazione ed alla poca resilienza.
Quando si parla di frustrazione si intende quel sentimento di impotenza che emerge in seguito al mancato soddisfacimento dei propri desideri e/o delle proprie aspettative.
Per resilienza invece si intende la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità[12]
La società odierna è definita da un noto sociologo contemporaneo, Bauman, “liquida”, cioè senza forma. In questo tipo di società che si adatta al contesto che la contiene, senza troppe regole, tutto è lecito e tutto si deve avere subito. Gli uomini che la abitano, sono paradossalmente, più fragili e meno autonomi dei loro antenati. La fragilità e le insicurezze esistenziali che li accompagnano, li rendono più sensibili ai rifiuti, alle rinunce, meno forti nel sopportare le distanze, il tempo, la solitudine e le situazioni scomode, in una parola: frustrati.
Inoltre, viene meno la resilienza, che si allena nel tempo. La sua assenza comporta la tendenza a tollerare poco le difficoltà, cercando la via di fuga più rapida ed incappando ormai, troppo spesso, in quella sbagliata. Il suicidio per molti, se non per tutti, è una via di fuga, quella che permette di andare via e di farla finita, lasciandosi tutto alle spalle, compresa la vita.
Per rimarginare il dilagare di questa emorragia di vita bisognerebbe porre in essere importanti azioni preventive che aiutino sia il singolo che la collettività a riconoscere il proprio disagio o quello altrui ed a reagire in maniera funzionale ad esso.
Studi differenti hanno dimostrato una riduzione drastica, addirittura del 60% del tasso di suicidi nell’isola di Gotland, in Svezia, dopo l’istituzione di un programma di formazione ed informazione centrato sul riconoscimento dei fattori di rischio suicidari (Rihmer et al., 1995; Rutz, 2001).
Contrariamente a quanto si crede, il parlare di suicidio non induce al gesto stesso, al contrario, il rendere manifesti i propri disagi interni, si è rivelato atto liberatorio e sostanzialmente “terapeutico”[13] .
L’azione preventiva dovrebbe, attraverso una serie step paralleli ed indipendenti: favorire azioni formative che vadano a creare conoscenza e consapevolezza del rischio suicidario; monitorare, qualora necessario, i militari attraverso screening sistematici; promuovere la conoscenza e la partecipazione dei militari al sostegno psicologico.
Credo che sia desiderio comune fare in modo che i servizi di sostegno psicologico, già posti in essere dalle Forze dell’Ordine e dalle Forze Armate, in favore dei propri uomini e donne, possano essere intensificati e maggiormente usati senza lo stigma che spesso li accompagna.
La vera forza è nel riconoscere la propria debolezza e da lì, senza paura, accompagnati da chi può indicare la strada, ripartire.
dott.ssa Antonella Petrella
Fonti:
[1] E. Giampieri, M. Clerici et al. in “Il suicidio oggi, implicazioni sociali e psicopatologiche” Ed. Springer
[2] Infografica sul suicidio in Italia. In occasione della Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, data di pubblicazione sabato 9 settembre 2017
[3] E. Giampieri, M. Clerici et al. in “Il suicidio oggi, implicazioni sociali e psicopatologiche” Ed. Springer, p.228
[4] https://www.panorama.it/news/cronaca/suicidi-nelle-forze-dellordine-dati-strage/
[5] Cerchio Blu nasce nel 2004 come primo progetto di sostegno psicologico per la Polizia italiana – http://www.cerchioblu.org/chi-siamo-2/
[6] https://www.panorama.it/news/cronaca/suicidi-nelle-forze-dellordine-dati-strage/
[7] ibidem
[8] http://www.cerchioblu.org/osservatoriosuicidipolizia/[9] http://www.cerchioblu.org/osservatoriosuicidipolizia/[10] E. Giampieri, M. Clerici et al. in “Il suicidio oggi, implicazioni sociali e psicopatologiche” Ed. Springer, p.222
[11] E. Giampieri, M. Clerici et al. in “Il suicidio oggi, implicazioni sociali e psicopatologiche” Ed. Springer, p.228[12] https://it.wikipedia.org/wiki/Resilienza_(psicologia)
[13] E. Giampieri, M. Clerici et al. in “Il suicidio oggi, implicazioni sociali e psicopatologiche” Ed. Springer, p.242
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