NON SI PUÒ AIUTARE CHI NON VUOLE ESSERE AIUTATO
“Prima di cercare la guarigione di qualcuno, chiedigli se è disposto a rinunciare alle cose che lo hanno fatto ammalare” scriveva il grande Ippocrate, padre della medicina, intorno al lontanissimo 300 a.c.
La datata affermazione resta attualissima ai giorni nostri come una disarmante e scomoda verità.
Da circa 20 anni, prima da volontaria, poi da professionista, mi occupo di assistenza all’interno di realtà disagiate. Ho cominciato a 19 anni a Roma, appena arrivata all’università, andando con un ristretto gruppo di amici alla Stazione Tiburtina, quando sotto il cavalcavia della tangenziale era allestita una baraccopoli, smantellata poi nei primi anni del 2000.
Ho continuato negli anni della mia vita universitaria sempre in Stazione con tossicodipendenti e senzatetto, fino a giungere ad un’età più matura in cui, con dei cari amici, mi sono avventurata nell’esperienza di aprire una Comunità di accoglienza per adulti in difficoltà che oggi conta 3 case, una in Molise, una in Abruzzo ed una in Lazio.
Una Comunità che vive da circa 15 anni, per scelta dei fondatori, senza finanziamenti pubblici e senza limiti di accoglienza.
Una Comunità nata e voluta dal moto del cuore di chi ha visto con i propri occhi la povertà e toccato con le proprie mani la sofferenza altrui, cercando di non restare spettatore ma provando, come meglio poteva, a collaborare per una possibile rinascita di chi, più o meno metaforicamente, stava perdendo la vita.
Ho ritenuto fare questo breve preambolo per dare senso a queste righe che nascono, non certo da luoghi comuni, dai divani dei salotti o ancora da poltrone di rappresentanza ma, da una concreta ed anche lunga esperienza e scelta di vita.
“Prima di cercare la guarigione di qualcuno, chiedigli se è disposto a rinunciare alle cose che lo hanno fatto ammalare” l’insegnamento di Ippocrate, che ho appreso poco tempo, mi è stato impartito molti anni addietro direttamente dalla strada e dalle persone che la abitano, dai miei pazienti e da quelle situazioni al limite che, pur potendo avere soluzione, non migliorano perché manca la cosa fondamentale, che non è l’aiuto.
Il mondo è pieno di uomini e donne di buona volontà pronti, non solo a parlare, ma a mettersi a lavorare, a rimboccarsi le maniche, talvolta sporcarsi le mani (perché la strada non è una beauty farm e le persone che la abitano non sono propriamente impeccabili fruitori delle sale da thè), a piegarsi per raccogliere chi è a terra e, a camminargli accanto facendogli strada.
Per fortuna il mondo è pieno di queste persone che non passano indifferenti vicino alla sofferenza altrui, facendo finta di niente, come se non fosse un fatto che riguarda loro o che in qualche modo non dipende anche da loro.
Ciò che manca, il più delle volte ahimè, non è la possibilità di migliorare una condizione di vita bensì la volontà, di chi verte in condizioni di disagio, di farsi aiutare ed accettare di cambiare il proprio stile di vita.
L’esperienza a Tiburtina in primis e tutte le altre a seguire, la Comunità, la professione di psicoterapeuta, la Caritas, mi hanno insegnato che non è possibile aiutare chi non vuole essere aiutato e non è giusto sostituire ciò che si ritiene essere “dignità” con ciò che è dignitoso e soprattutto “scelta” di un altro .
Queste esperienze mi hanno insegnato a rispettare l’altro sebbene agisca scelte per me incomprensibili, a smussare gli angoli della mia smania di onnipotenza nell’aiutare tutti, a dare senso all’azione di aiuto senza svalutazioni e sprechi.
Talvolta, anche se è duro ammetterlo, in nostro altruismo non è altro che un estremo gesto egoistico che scarica i pesi dalla coscienza dopo averla scossa.
Allora ci ritroviamo a dare qualche spicciolo che ci avanza al mendicante di turno davanti la chiesa, a fornirgli abiti (rigorosamente da noi smessi) o ammassarli nei depositi egli enti caritativi perché è un peccato che restino nei nostri armadi ma, soprattutto che occupino spazio togliendolo al nuovo.
Sicuramente qualcuno potrà accusarmi di cinismo ma è assolutamente vero che, quanto ho raccontato, è la quotidianità che vivo e che stride con le parole “buoniste” che sento troppo spesso pronunciare diventando causa di fraintendimenti, e il più delle volte, montando grandi e sterili polemiche.
Polemiche che scaldano gli animi, come fuochi di paglia ma, che trovano il tempo della scrittura di un post su facebook e servono principalmente da valvola di sfogo “getta veleno” accumulato dalle frustrazioni personali ma, che di certo, né facilitano né migliorano la situazione presa in questione.
Ieri è stato pubblicato su FB un post che denunciava la presenza di un giovane uomo per strada costretto a dormire all’aperto senza un tetto sotto cui coprirsi. A questo post ha fatto seguito un discreto numero di commenti e un più alto numero di condivisioni, a parte qualcuno che proponeva di fare qualcosa, tipo di associarsi per aiutarlo, la maggior parte degli interventi sono stati polemici e inutili.
Chi ha pubblicato il post-denuncia credo abbia fatto bene a palesare la situazione, non sapendo che è già ben nota ad istituzioni assistenziali pubbliche, private nonché religiose, ma non posso che chiedermi a cosa servano i successivi commenti sprezzanti ed inconsapevoli del lavoro che è alle spalle di questa triste vicenda.
Commenti che lasciano il tempo che trovano, per tutti, anche per chi li ha scritti che, il minuto dopo, probabilmente stava già commentando un altro post, entrando, senza sapere nè come nè dove, in un’altra storia che avrebbe poi lasciato poco dopo per continuare il giro.
La notizia non la dovrebbe fare un uomo per strada, ce ne sono tanti, lui a Campobasso non è il solo e, neppure l’incuria delle istituzioni religiose, pubbliche e private, che invece questa volta hanno fatto un ottimo lavoro, la notizia la dovrebbe fare la propositività di migliorarsi apprezzando il lavoro di chi ogni giorno si alza ed inizia la sua giornata andando incontro al prossimo, senza clamori, senza riflettori ed anche senza sprezzi e polemiche sempre ed in ogni caso inutili.
Buon lavoro agli uomini ed alle donne di buona volontà che lungo la propria strada non vanno oltre ma si fermano a soccorrere chi è caduto!
Dott.ssa Antonella Petrella
Psicologa Psicoterapeuta
Comunità Figlia di Sion