Devianza giovanile, violenza e bullismo: una riflessione necessaria
Negli ultimi giorni, la comunità di Santa Croce di Magliano si è trovata improvvisamente esposta a una ferita profonda e dolorosa: un grave episodio di violenza tra adolescenti che ha visto come vittima un ragazzo poco più che quattordicenne, aggredito brutalmente da alcuni coetanei. Calci, pugni, umiliazione fisica e simbolica, con esiti clinici tutt’altro che trascurabili, tra cui una lesione all’orecchio potenzialmente invalidante. Un’aggressione che, oltre a colpire il corpo del giovane, ha prodotto una seconda ferita, non meno lacerante: la diffusione di un video sui social, che ha trasformato un atto di violenza in uno spettacolo pubblico, amplificandone l’impatto emotivo e sociale. Ciò che colpisce, tuttavia, non è soltanto la gravità del singolo episodio, ma il fatto che esso non possa più essere letto come un evento eccezionale, isolato o circoscritto a una specifica realtà territoriale.
Anche il Molise, regione spesso percepita come “protetta” da certe derive, mostra da tempo segnali preoccupanti di disagio giovanile: episodi di aggressività tra pari, dinamiche di gruppo improntate alla sopraffazione, ricerca di visibilità attraverso la violenza. Fenomeni che rimandano a una sofferenza più ampia, a vuoti educativi, relazionali e simbolici che attraversano trasversalmente piccoli centri e grandi città, senza distinzione.
In questa prospettiva, Santa Croce di Magliano non è “il problema”, ma uno specchio: uno dei tanti luoghi in cui una dinamica latente è emersa in modo drammatico, costringendoci a guardare ciò che spesso preferiamo non vedere. La violenza giovanile non nasce improvvisamente, né appartiene a contesti “devianti” per definizione; prende forma nel tempo, si nutre di silenzi, di banalizzazioni, di mancate assunzioni di responsabilità collettiva. Ed è proprio da qui che la riflessione deve partire, se vogliamo evitare che l’indignazione del momento si trasformi rapidamente in rimozione o, peggio, in una caccia al colpevole che finisce per assolvere tutti gli altri.
Da anni mi occupo di violenza in molteplici forme: la osservo nei contesti clinici e sociali, la studio, ne scrivo, cerco di comprenderne i meccanismi profondi e, soprattutto, di contribuire alla sua prevenzione. Se c’è un aspetto che, più di altri, continua a rappresentare una sfida complessa, è proprio quello legato al suo riconoscimento.
Prima ancora di contrastarla, la violenza deve essere vista, nominata, compresa.
E questo, troppo spesso, non accade.
Accade invece che la violenza venga giustificata, banalizzata o ridimensionata attraverso un linguaggio che attenua, normalizza e finisce per anestetizzare la coscienza collettiva, rendendo difficile coglierne la reale portata. Eppure, dietro ogni atto violento non vi è mai soltanto un gesto fisico, ma una trama complessa di ferite emotive, relazioni compromesse e segnali di disagio individuale e sociale che chiedono di essere riconosciuti e ascoltati.
Questo processo genera un effetto paradossale: finché la violenza viene percepita come “minore”, tollerata o giustificata, tende a essere minimizzata; quando invece assume forme più evidenti e non più difendibili, la reazione collettiva si rovescia bruscamente nel suo opposto. Alla precedente svalutazione subentra un’esplosione delle coscienze, spesso amplificata dal circuito mediatico, in cui ciascuno avverte il bisogno di prendere posizione e di far sentire la propria voce. Non sempre, però, questo avviene con rigore, misura o responsabilità.
Così, nel tentativo di condannare la violenza, si finisce talvolta per agirne, in modo più o meno consapevole, ulteriori forme, che non vengono percepite come tali ma che contribuiscono ad alimentare e ad ampliare la spirale del fenomeno.
La risposta alla violenza attraverso altre forme di violenza, meno visibili ma non meno distruttive, non è meno preoccupante di quella che si intende denunciare, perché ne diventa specchio ed esempio, riproducendo un funzionamento profondamente disfunzionale. Violenza verbale, psicologica, simbolica, accuse, attacchi, delegittimazioni, parole usate come armi, tutto questo viene talvolta giustificato in nome della rabbia, dell’indignazione, del bisogno di giustizia. È importante chiarirlo con precisione: la rabbia è un’emozione legittima, talvolta necessaria, perché segnala un’ingiustizia subita o osservata. Ma l’aggressività che si traduce nella mortificazione dell’altro non è mai unite né riparativa. Quando la rabbia perde il legame con la responsabilità, rischia di trasformarsi essa stessa in una nuova forma di violenza. A fronte di tutto ciò non posso che giungere alla conclusione che esiste una forma particolarmente insidiosa di violenza: quella che si maschera da giustizia. È una deriva dell’aggressività che si presenta come “doverosa”, “morale”, “riparativa”, ma che in realtà riproduce la stessa logica che vorrebbe condannare.
Non si costruisce mai giustizia autentica attraverso la violenza. Mai. Nemmeno quando l’obiettivo è chi ha commesso un atto grave.
Ferire qualcuno, fisicamente o verbalmente, non restituisce dignità alla vittima, non educa, non ripara. Al contrario, alimenta una catena di ostilità che impoverisce l’intero tessuto sociale. Questo rischio oggi è amplificato dalle dinamiche della comunicazione digitale. Esprimere un’opinione è semplice, immediato, legittimo. Ma la facilità con cui si parla non sempre si accompagna alla cura del linguaggio, al senso del limite, alla consapevolezza dell’impatto delle parole.
I social media, se non usati con responsabilità, possono trasformarsi in spazi di semplificazione estrema, dove il pensiero critico cede il passo al giudizio impulsivo e dove la complessità viene sacrificata in favore di slogan, accuse e schieramenti.
Papa Benedetto XVI aveva colto con lucidità questa profonda trasformazione culturale, sottolineando come le nuove tecnologie non stiano cambiando solo il modo di comunicare, ma la comunicazione stessa, e con essa il modo di pensare, di apprendere e di costruire relazioni. Alla luce di ciò che osserviamo quotidianamente, non possiamo che riconoscere quanto questa intuizione fosse profonda. La cultura cambia, la società cambia, il linguaggio cambia. E non sempre il cambiamento procede nella direzione della crescita umana e relazionale.
Quando, a seguito di episodi di violenza, assistiamo a un’escalation di attacchi verbali, polemiche sterili e prese di posizione aggressive, è necessario fermarsi e porsi una domanda scomoda ma fondamentale: a cosa serve tutto questo?
Serve davvero a proteggere, a educare, a prevenire?
Non rischia piuttosto di alimentare ulteriormente divisioni, ostilità e un clima emotivo avvelenato, proprio nel momento in cui sarebbe invece necessario sentirsi parte di una comunità capace di riflettere, interrogarsi e assumere responsabilità condivise?
Leggere commenti carichi di accuse, scarichi di responsabilità e individuazioni di colpevoli unici, la scuola, la famiglia, le istituzioni, le forze dell’ordine, rischia di produrre un effetto paradossale: legittimare l’idea che la violenza non mi riguardi, che sia sempre “di qualcun altro”. In realtà, nell’ottica della corresponsabilità, la violenza riguarda tutti. Non perché tutti siano colpevoli, ma perché tutti siamo parte del contesto in cui essa può nascere o essere prevenuta.
La violenza, l’ingiustizia, la prevaricazione non diventano un problema solo dopo che si manifestano in modo eclatante. Sono un problema prima, quando si tollerano segnali di disagio, quando si minimizzano comportamenti aggressivi, quando si sceglie il silenzio o l’indifferenza. È prima che siamo chiamati a sentirci responsabili: nel tutelare, nell’educare, nel costruire contesti relazionali più sani e più attenti.
Le agenzie educative, la scuola, la famiglia, i servizi, il volontariato, svolgono un lavoro fondamentale e spesso faticoso. Progettano, ascoltano, intervengono, accompagnano. Ma non possono e non devono essere lasciate sole, caricate di un peso che dovrebbe essere condiviso dall’intera comunità.
La prevenzione della violenza non è un compito settoriale: è un processo collettivo. Accanto alla scuola e alla famiglia, ogni cittadino ha un ruolo, dentro e fuori lo schermo di un computer. Come ricordava Bauman, il “muro di vetro” dello spazio digitale non deve diventare un alibi per nascondersi, o per sottrarsi alla responsabilità etica delle proprie parole e dei propri comportamenti. Essere presenti, attivi, propositivi, essere di esempio, è una delle forme più potenti di prevenzione.
Ogni volta che parlo di violenza ai giovani, concludo con una frase semplice, che lascio anche qui. Una frase che mi accompagna da anni e che mi fu donata dalla mia insegnante di italiano alle scuole medie:
«Se ogni piccolo uomo, nel suo piccolo mondo, fa una piccola cosa, il mondo cambia.»
Nel tempo ho imparato che fare la propria parte non richiede gesti straordinari. È spesso sufficiente non voltarsi dall’altra parte, esserci, e farlo in modo costruttivo. È da qui che può nascere un cambiamento reale: lento, faticoso, ma possibile, capace di trasformare le ferite in occasioni di crescita collettiva. Concludo con l’augurio che ciascuno di noi possa sentirsi responsabile e corresponsabile di sé e dell’altro, e che scelga di fare, per quanto gli è possibile, la propria piccola parte nella costruzione di un mondo migliore di quello che, finora, abbiamo contribuito a creare.
Dott.ssa Antonella Petrella, psicologa psicoterapeuta

